Da Medved a Furia Ceca: la bionda chioma che ha incantato il calcio

Era il 31 maggio di undici anni fa quando Pavel Nedved, il giocatore ceco forse più famoso della storia del calcio internazionale, decise di appendere gli scarpini al chiodo e lasciare il calcio giocato, tra le lacrime di tifosi, compagni di squadra e semplici appassionati di calcio, con indosso la fascia di capitano gentilmente ceduta in occasione di quell’ultima partita (proprio con la Lazio, scherzi del destino) da Alex Del Piero.

Nato a Cheb il 30 agosto del 1972, Pavel ha cominciato a far meraviglie col pallone tra i piedi già a 5 anni, giocando con i pulcini del Tatran Skalnà fino ad arrivare, pochi anni dopo, ad indossare la maglia del Cheb, la stessa con la quale il padre Vaclav aveva giocato, diventando il beniamino dei suoi concittadini.

Ma Pavel aveva una marcia in più e i tifosi del Cheb lo persero ben presto: nel 1991, Pavel si ritrovò a Praga, prima divisione, sponda Dukla. Il Dukla Praga, società storica della Capitale, era però ormai in caduta libera. Chiuse la stagione con un undicesimo posto e dovette cedere il suo miglior talento ai vicini della sponda opposta di Praga, quella nobile, elegante ed in piena ascesa: lo Sparta Praga.

Pavel sa di aver raggiunto la meta più ambita a livello nazionale, conosce il suo valore e fa il possibile per conquistarsi un posto da titolare inamovibile e farsi notare anche a livello internazionale. Lavora, lavora duro, come sempre. Guadagnava circa 9000 corone al mese (pari a quasi 400€), il minimo indispensabile per sopravvivere nella capitale, ma a lui stava bene: “sacrificio e lavoro” era il suo mantra da sempre. Era il primo ad arrivare agli allenamenti, l’ultimo ad andarsene, tanto da meritare il soprannome “Il pazzo” da parte dei suoi compagni di squadra. Ma a lui non importava: sapeva giocare a calcio e voleva farlo nel modo migliore, da professionista. Anche per dimostrare all’allora allenatore dello Sparta, Dusan Uhrin, di essere degno di quella maglia. Già, perché l’ignaro tecnico, in tempi non sospetti, definì Pavel non all’altezza dello Sparta, salvo poi, dopo pochi mesi, cambiare idea e convocarlo in prima squadra.

L’Europeo del 1996 è l’anno della sua consacrazione internazionale. I compagni di squadra lo soprannomineranno Medved, ovvero “orsetto”, per via del suo essere serio e taciturno durante gli allenamenti. In campo invece diventa un leader vero, tanto da arrivare in finale con la sua Repubblica Ceca, sconfitta però dalla Germania di Bierhoff e Berger.

Quella nazionale passò comunque alla storia, furono trattati da veri eroi al rientro in Praga. Rientro breve per Pavel: giusto il tempo di far le valige e partire per Roma, destinazione la Lazio del boemo Zeman.

Il 4-3-3 e la velocità del calcio italiano rispetto a quello ceco, mettono qualche difficoltà iniziale a Pavel che comunque se la cava conquistandosi un posto da titolare inamovibile. Da Zeman a Erikson le cose non cambiarono: l’allenatore svedese definì Pavel uno cui era impossibile rinunciare. Quello fu l’anno dello scudetto laziale, Pavel festeggiava da re mentre la “sua” Juve piangeva arrabbiata nel lago di Perugia.

Quella stessa Juve che, nel 2001, per il post Zidane scelse proprio il biondo Pavel, strappandolo alla Lazio, dopo cinque anni, per 75 miliardi di lire. Il primo periodo di adattamento non fu, ovviamente, semplice: Nedved in campo non c’era, né con la testa né col fisico. Si instaurò un vero e proprio caso mediatico fino a quando la cura Lippi non cominciò a fare effetto: l’esperto allenatore bianconero “impose” a Pavel di giocare dietro le punte. Pavel accettò e il gioco, da quel momento, comincio a passare dalle sue gambe: gol, assist, recuperi e splendide rifiniture.

Finalmente il Pavel bianconero prendeva forma, l’intesa con Del Piero e Trezeguet era meravigliosa, e i tifosi, orfani di Zidane, cominciarono a vedere in lui un perno del gioco bianconero, grazie alla sua tecnica, classe e ferocia agonista, tanto da affibbiarli il soprannome di “Furia Ceca”.

Con la Juve porta a casa i primi due scudetti, di cui il secondo quasi passato inosservato: la testa era alla Champions. La Juve era favorita, Pavel veniva da partite superlative, dal gol col Barca ai quarti, fino a quel meraviglioso tocco che ha incantato Torino (e non solo) nella semifinale di ritorno col Real Madrid, vinta per 3-1. Juve in finale, ma senza Pavel. Al 37° minuto del secondo tempo, come una ghigliottina, si presenta il giallo di Meier per un fallo ingenuo del diffidato Pavel. Fine dei giochi a soli 8 minuti dalla tanto desiderata e meritata finale.

Pavel non c’era, la Juve giocò senza la sua anima, senza la sua furia. Un cartellino giallo che peserà come un macigno per Pavel e per tutti gli juventini. Le sue lacrime, l’invano tentativo di Di Vaio di confortarlo, resteranno immagini indelebili nelle menti di tutti.

Ma, come tutte le storie, i buoni vincono sempre: pochi mesi dopo Pavel ricevette il Pallone D’Oro, il premio più ambito per un calciatore, la dimostrazione del proprio valore, una attestazione di stima da parte del mondo del calcio. La definitiva consacrazione nell’Olimpo del calcio.

Un premio che, però, il buon Pavel, non ha mai nascosto avrebbe barattato volentieri con quella finale meritata ma non giocata. Ma questa è un’altra storia.

Pavel negli anni ha incarnato maglia e filosofia bianconera, ha accettato di giocare in serie B nonostante le richieste di club di tutta Europa, ha poi nuovamente trascinato la Juve in serie A e in Europa, fino a quel 31 maggio del 2009, il giorno del suo addio al calcio giocato. Addio che lui ha definito l’inizio di una nuova era: da dirigente fino alla nomina di Vicepresidente della Juve nel 2015. La storia tra Pavel e la Juve non è ancora finita.

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